Quando mi chiedono di farmi un autoritratto vado un po' in panico: affrontare un autoritratto per me è come affrontare se stessi. Non che io abbia paura di avere a che fare con me stessa (ogni giorno sono con me stessa) e considero ogni mia piccola opera un frammento di autoritratto, ma il volto umano è qualcosa di misterioso e arcano che mi sento quasi in timorosa riverenza come se l'affrontare il mio volto fosse come entrare in un tempio.
Al secondo anno dell'Accademia ci chiesero di fare come verifica un autoritratto partendo da una fototessera. Allora sì che ero in panico anche perché ero un po' più inesperta e non sto parlando solo nell'usare i pennelli e colori. E infatti venne, scusate la parola, uno schifo letterale. Ma convinta che potevo dare di più, dopo qualche mese lo rifeci e venne benissimo tanto da stupire me e il mio professore. Bisogna dire che nella pittura sono sempre stata istintiva quindi il soffermarmi di più sulla pittura e quindi nell'atto del dipingere per me era una piccola conquista.
Dal secondo anno dell'Accademia a questa primavera.
Durante il corso di fotografia, Andrea Bernabini ci dà vari compiti e uno è proprio quello di affrontare l'autoritratto. Ci dava la libertà assoluta di poter ritrarre anche un'altra parte del corpo se non volevamo fare il viso, ma io volevo ritrarlo.
Così ho preso la mia macchina e ho fatte tantissime foto giusto per scherzare un po', per prenderci un po' la mano e alla fine ho realizzato questi autoscatti:
Gli autoscatti sono volutamente mossi e sono anche sovraesposti come luce. L'ho fatto per aumentare il senso di estraniamento, di inabissimento, ma poi scatta qualcosa. Considero queste foto come un vero e proprio lavoro e non una semplice prova perché si ricollegano a tutti i lavori che ho fatto precedentemente.
Quando ho visto ho provato un senso di stupore a ciò che avevo realizzato: non erano pose studiate. Io semplicemente ero in scena e facevo ruotare, e scuotere, la macchina fotografica attorno a me.
Ho solo voluto aggiungere una foto ed è la settima quella appunto dello stupore.
Alla fine il sorriso e la foto, come si può ben notare, sono fermi. Non è un caso.
P.S.: Quando ci riuscirò, posterò la foto col prima e il dopo del mio autoritratto fatto in Accademia. Lo prometto. Vi chiedo solo di portare pazienza anche per le illustrazioni scartate che vi avevo promesso. Scusate.
Ho scritto che ogni giorno sono con me stessa, ma riflettendoci non è propriamente esatto. E' vero che ogni giorno noi siamo noi, ma è anche vero che allo stesso tempo c'è una parte di noi sconosciuta e che vuole rimanere tale per rivelarsi solo quando vuole lei. E' la nostra parte oscura che non vuol dire necessariamente parte maligna.
Aggiornato
I tuoi post danno sempre spunti interessanti per riflessioni e divagazioni. Riguardo al ritratto di un volto umano ad esempio, che sia un autoritratto o meno poco importa, non posso non pensare a uno dei miei disegnatori preferiti: Tullio Pericoli. Non ricordo se ti avevo già parlato di lui, ma secondo me è uno dei migliori ritrattisti in assoluto. Se ti capita, cerca in libreria i suoi ritratti editi da Adelphi, e sfoglia il libro per osservare i suoi ritratti a matita. Io non mi stanco mai di guardarli e imparare da lui. Ora ti trascrivo un brano scritto da un critico che riguarda proprio Pericoli ed è molto utile per capire cosa è in fondo un ritratto, e fino a che punto conta la somiglianza col soggetto.
RispondiElimina«Fare un ritratto è difficile. Bisogna prima passare un momento critico in cui rapidamente - se si è fortunati - ci si sbarazza di tutti i luoghi comuni sull'arte del disegno». Quando (di rado per dire la verità) prendeva la parola, Saul Steinberg tendeva ad andare dritto allo scopo, senza troppe spiegazioni. Lo stesso vale per Tullio Pericoli che della sua opera non ama discutere - ma se lo fa, è altrettanto concreto. C'è quindi da credergli quando sostiene che fra i luoghi comuni a proposito del ritratto di cui parlava Steinberg, il più tenace e insidioso, quello che impone che fra il ritratto e il suo oggetto debba sempre e comunque esserci una somiglianza, è il primo da eliminare. Oltre che di innumerevoli teorici, la somiglianza è stata - e continua a essere, sotto diverse spoglie - il cruccio di quasi tutti i ritrattisti, quando scoprendo l'opera finita si sentono immancabilmente ripetere dal modello che qualcosa - nella piega della bocca, nell'arco delle sopracciglia, nel computo complessivo delle rughe - non torna. Da lì prende in genere avvio una discussione che coinvolge, appunto, concetti contrapposti di somiglianza, e in molti casi si conclude con un brusco raffreddamento dei rapporti. È un'eventualità cui Pericoli, per scelta, si sottrae.
(prima parte)
(seconda parte)
RispondiElimina"I soggetti che ama di più - fra cui certamente gli otto che danno vita a questa raccolta - sono spesso scrittori come Stevenson e Proust, ormai molto lontani nel tempo e nello spazio. Ma anche quando Pericoli ha effettivamente conosciuto e frequentato i suoi modelli - come nel caso di Montale e di Calvino -, l'idea di partenza, e il risultato, non cambiano. Il loro volto, sebbene familiare, rimane per Pericoli, prima che una sembianza da restituire, una mappa di cui servirsi per trovare ciò che si cerca, e che spesso si cela allo sguardo. Prendiamo il caso di Kafka, cioè di quello che col tempo è finito per diventare il volto della letteratura in assoluto. Di Kafka esistono, come si sa, poche fotografie, che coprono però l'intero arco della sua esistenza. Se nelle prime lo scrittore si concede all'obiettivo e sembra mosso innanzitutto dal desiderio di non deludere chi vuole vederlo - in primo luogo il fotografo -, col passare degli anni ogni disponibilità viene meno. Kafka tenta di nascondersi, e negli ultimi scatti l'istinto di fuga prende fisicamente la forma di una sorta di strabismo divergente. Proprio qui - cioè nel momento in cui un ritrattista convenzionale di fronte all'evidenza di un enigma getterebbe la spugna - comincia il lavoro di Pericoli, che non si accontenta di restituire un volto, ma vuole piuttosto aprirlo - o, come dice lui, scardinarlo, usando come grimaldello tutto ciò che di quel volto si sa, o si riesce a immaginare. Ora, per molto tempo i ritrattisti occidentali, da Rembrandt a Warhol, hanno tentato di nascondere ciò che scorgevano dietro una superficie pittorica sempre più perfetta, e sempre meno distinguibile dal suo oggetto. Il movimento di Pericoli procede in senso diametralmente opposto, e non esclude il ricorso a una modica dose di violenza - nei confronti del soggetto, ma anche del proprio stile, sempre pronto a essere capovolto, abbandonato o smentito. Lo testimoniano le pagine di questo album, in cui sono raccolti, insieme ai ritratti «finiti» anche alcuni degli infiniti tentativi, ripensamenti e scarti di cui è intessuto il lavoro dell'artista in generale, e di Pericoli in particolare. Perché, come diceva ancora Steinberg, «non è possibile trovare del nuovo senza prima abbandonare qualcosa».
CùCù...
RispondiEliminaé permesso?
Arrivo dal blog di Veggie...
Ho letto su "a voi la parola" di oggi e volevo complimentarmi^^
Purtoppo sono di fretta e quindi non sono riuscita a leggere tutto il tuo blog..
Ma vedo che ti piace l'arte, la fotografia, il teatro... FANTASTICO!!!
Tornerò sicuramente a leggere con più calma, ora devo scappare!
A presto!
ciao.. il post che ha pubblicato Veggie mi ha condotto a te..! passo per ringraziarti, hai scritto cose troppo belle, e per dirti che è stata una gioia conoscerti.
RispondiEliminaRingrazio tantissimo Enigma e Michiamomari,e per essere volute passare e lasciare una loro traccia anche qua. E anche se un po' in ritardo ringrazio sempre Andrea che mi conduce a nuovi testi su cui riflettere.
RispondiEliminaGrazie infinite a tutti!