mercoledì 31 gennaio 2018

Teatro Accademia Marescotti (sesta parte)



Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta parte
Quinta parte


Sesto appuntamento questo di sabato 27 e domenica 28 gennaio 2018.
Ci stiamo avvicinando sempre di più alla fine del percorso che ci sarà a metà marzo ma non è tempo di pensare adesso al finale.
Anche se stiamo preparando le scene apposta, c'è tutto un percorso da fare e questo vuol dire percorrere le parti rimanenti e questo vuol dire mettercela tutta senza stare ad aspettare l'ansia del palcoscenico.



Giunti a questo punto, abbiamo cominciato a vedere gli altri, a conoscerci.
Sabato 27 abbiamo avuto Ivano Marescotti per tutto il giorno e subito, ancora prima di cominciare, ci ha voluto ricordare il testo scritto da Gianfranco Tondini (qui letto da un'allieva), ricordando di evitare la tentazione del giudizio.
Intanto che quella persona cresce nel suo percorso, imparando qualcosa di nuovo, cresce anche chi guarda.
Mi viene da pensare che è come nell'esercizio di fiducia, fatto a volte nel Circolo degli Attori, dove c'è uno che si butta all'indietro e ci sono tutti gli altri che lo prendono, sollevandolo in aria.
Non è soltanto chi si butta a fare tutto il lavoro anche perché chi sta dietro non è uno qualcuno di passivo, anzi partecipa completamente: ogni parte del corpo di chi è sollevato deve essere completamente in asse ed equamente distribuita tra tutti quelli che lo sostengono.
La paura c'è all'inizio per chi si butta senza contare quell'attimo di vuoto tra il momento del buttarsi all'indietro e l'essere presi per non parlare di quando si è sollevati dove c'è la paura di farsi male, sentirsi completamente vulnerabili, alla mercé di altri.
Indipendentemente da ciò che si è vissuto, c'è una sorta di conquista, come aver scalato una montagna. C'è chi magari ci metterà più tempo di un altro, ma non è questo che importa. Non è una gara sul chi arriva prima.
Non dimentichiamo che come tocca ad uno, tocca ad un altro. Nessuno è immune e a ben pensarci, è un lusso questo, potersi fidare in questa maniera, dove la risata non è discriminatoria.
Chi giudica mette dei paletti, non si lascia coinvolgere e questa è una mancanza: se già tra gli attori non c'è coinvolgimento, come lo ci si può aspettare nel pubblico?


Bene, dopo questa premessa di Ivano Marescotti (e la mia digressione dal resoconto), si può partire 






Sempre di più si vedono come gli inciampi si rivelino momenti di verità.
In più scene proposte ci sono stati momenti di silenzio tra chi recita, attimi dove chi guarda pensa "E adesso? Cosa sta succedendo?" quando l'unico momento di tensione è: "Cos'è che devo dire?".
Oppure qualcosa che non è andato come era stato previsto e proprio per questo c'è stata una sorpresa in chi recita.
Sul palcoscenico tutto avviene nel qui ed ora e questi momenti sono rivelatori: portano tutto al momento presente e non a ciò che era stabilito a priori.
Potrebbe sembrare quasi una battaglia tra chi recita dove nessuno vuole averla vinta.
Durante il momento delle prove, ci viene chiesto di improvvisare, di esagerare (perché poi è più facile togliere che aggiungere) senza ovviamente dimenticare lo scopo.
Sul palcoscenico bisogna portare vita e non soltanto eseguire scene. Bisogna portare azioni non solo parole ed Ivano Marescotti non manca mai di ricordarcelo.
Per esempio, da che luogo stai uscendo? Dal bagno tipo? Quali azioni si possono fare usciti dal bagno? Oppure, si è in cucina? Quali azioni ci sono?
Inoltre, queste azioni non sono momenti di pausa dalle parole (ovvero parlo, faccio azioni, parlo) ma si parla mentre si agisce così come non ci si guarda sempre tra gli occhi.
L'atto di vedersi negli occhi così come quello di camminare per il palcoscenico, come ci ha spiegato l'insegnante Alessandra Frabetti domenica, non è vietato in sé ma deve avere uno scopo, una precisa direzione, delle emozioni e motivazioni che guidano.
Semplici atti fatti con cognizione di causa assumono un importante significato che non è quello di "Non so cosa fare".
Un altro gesto sconsigliato di norma è quello di mettersi di spalle.
E' capitato che più volte qualcuno si è trovato così ed è successo che una volta chi si è trovato di spalle non sia parso poi così sbagliato, ma anzi sembrava naturale. Sembrava come se assistessimo realmente ad un fatto quotidiano e non c'erano dubbi su che cosa facesse l'uno e cosa l'altro.
Un'azione così non va perpetrata all'infinito ma giusto quel tempo necessario per far sì che non sia un elemento di disturbo.
Ogni azione deve essere conscia come il movimento delle mani, una croce per chi recita che molte volte si chiede: "Che cosa faccio con queste mani? Dove le metto?".
Il muoverle troppo cattura inevitabilmente lo sguardo dello spettatore, come il "balletto" qua e là sul palco, e inoltre quest'azione, come per tutte le altri, se prolungata perde forza.
Una dote che viene richiesta all'attore è l'avere la consapevolezza di controllare i movimenti del corpo, compresi quelli del viso. Corrucciare la fronte, corrugare le labbra e le sopracciglia, arricciare il naso ecc... Hanno bisogno di una motivazione per essere fatti. Sono tutti micromovimenti che, fatti a priori, non sono indice di espressività.
Niente e nessuno vieta di farli nella propria vita, ma sul palco bisogna saperli controllare così come per ogni altra azione.
In alcune scene si è chiesto l'aiuto di altri e spesso questi ultimi potrebbero sembrare comparse avendo poche parole o anche nessuna, ma tutto ciò non importa: Anche chi aiuta è un co-protagonista, ci ricorda Ivano Marescotti.
Quanto più il co-protagonista è credibile, tanto più lo sarà il protagonista. Il ruolo della spalla non è secondario.
Si nota poi sempre di più come chi recita le scene si impegni a cercare azioni che non lo facciano stare con le mani in mano, ma ogni azione deve avere sempre un minimo di attendibilità drammaturgica. Se così non è, le si aggiusta o le si toglie così come si tolgono le parole che servono esclusivamente come spiegazione.




Un'altra azione che si è vista in più scene è il parlare al telefono.
Non si tratta solo di parlare, ma di dare il tempo a chi c'è dall'altra del telefono di rispondere. Ovviamente quest'ultimo non è presente fisicamente, ma comunque il pubblico lo percepisce attraverso noi, attraverso le nostre reazioni.
Per questo Ivano Marescotti ci consiglia di avere bene in mente le frasi dell'altro come Alessandra Frabetti ci dice di avere ben in mente chi sia l'altro.
Solo così la nostra recitazione può essere autentica agli occhi dello spettatore.



Si passa a domenica 28.

Per la prima ora abbiamo la cantante e nostra vocal coach Valentina Cortesi.
Ci siamo lasciati con la respirazione diaframmatica sabato 16 dicembre 2017 (leggi qui).
Stavolta si va un po' più giù, agli addominali obliqui.



immagine trovata su Google



Respirare con gli addominali obliqui porta alla respirazione performatica. Quindi stesi sul tappetino da yoga o su un telo, prima sentiamo, guidati dalla nostra insegnante, ogni parte del nostro corpo che appoggia per terra e poi respiriamo col diaframma.
Due dita sotto l'ombelico a lato, in prossimità con la sporgenza dell'osso iliaco, troviamo gli addominali obliqui esterni.
Ogni tensione, ogni carico va eliminato, questo anche sul palco, anche quando ci si trova a che fare con un ruolo sofferto.
Per esempio non respirare usando i muscoli retti. Sono quelli che danno la forma "six packs", i tipici addominali scolpiti, e servono per i movimenti di sforzo, compresa la defecazione.
Sottoporre a una pressione così la respirazione porta ad una voce soffocata.
Per fare sì che la respirazione funzioni, deve essere fluida e se si sente qualche muscolo tremare vuol dire che si sta caricando troppo così come sentire le spalle rigide.
Dopo, Valentina Cortesi ha chiesto a qualcuno se voleva leggere un racconto.
Non si tratta di interpretarlo, solo di fare un esercizio con la respirazione.
Quindi si inspira, si porta in sospensione (per farci un esempio, ci ha detto di pensare a quando improvvisamente ci si rende conto di qualcosa e si dice: Aahhh) e poi si legge.
Quando si va sul palco non si può pensare a come si deve respirare, ma tutto ciò deve essere automatico per questo sono fondamentali questi esercizi e la stessa cosa ci dice poi la nostra insegnante di dizione Alessandra Frabetti.
Domenica è stato il suo ultimo giorno con noi e si è finito di vedere le scene.
Come è stato per le altre volte, si guarda la scena e poi a turno, l'insegnante chiede a chi guarda le impressioni sulla performance e quali sono stati gli errori fonetici.
Ricordarsi sempre del pubblico ci dice Alessandra Frabetti.
Già questo pensiero ci dovrebbe far evitare di mangiare le parole, di dire ogni sillaba.
Sul palco siamo in relazione con il pubblico così come gli attori sono in relazione tra di loro.
Inoltre ci chiede di crederci, di andare dentro i ruoli, di entrare in temperatura emotiva, di lasciarsi trascinare.
Si fanno le prove, si improvvisa e poi ci si dirige.
Il personaggio non bisogna immaginarlo a priori. Per esempio, come ci ha detto l'insegnante, Amleto non è amletico e Otello non è geloso.
Nel senso che queste loro caratteristiche, quasi diventate per tutti delle peculiarità fondamentali e indiscutibili, non compaiono nel personaggio sin dall'inizio, ma ci arriva.
Si sono visti anche dei monologhi in relazione con il pubblico e qui chi interpreta si deve chiedere anche a chi lo dice e perché. Chi è il suo pubblico? Che relazione vuole avere da esso?
Un attimo di spaesamento per noi allievi è stato dato da un monologo di Teatro fisico dove il corpo è il principale canale narrativo.
Nonostante la fisicità, per chi guarda assume la stessa sensazione di guardare un quadro astratto e tutto ciò richiede una grande sapienza nel fare un'opera del genere, qualcosa che richiede gesto e sintesi




Finisce così anche domenica.
Il prossimo appuntamento sarà sabato 3 e domenica 4 febbraio.

Vi lascio con le parole dell'allieva Patrizia Cevoli:

Amo Tam quando siamo tutti lì e partecipiamo alle insicurezze e agli inceppamenti di chi prova la scena e, sbagliando, offre una verità. E questa si chiama empatia.
Amo Tam quando i nostri occhi si incontrano per dirci “bella la tua cosa, mi sei piaciuta” o quando ce lo diciamo proprio in faccia e ci scappa un sorriso e una carezza sul cuore. E questa si chiama condivisione.
Amo Tam anche quando non glielo dico. E anche quando tocca a me e ho desiderio di offrire una piccola emozione che non so se mi riesce. E questa si chiama voglia di dare.
Amo Tam quando mi fate morire dal ridere e dio sa quanto ne ho bisogno. E questa si chiama gratitudine.
Amo Tam per quell’energia che esce fuori da un sorriso scomposto che non vorresti mai sparisse da quelle labbra, perché poi mi torna in mente quella faccia e scappa un sorriso anche a me.
E amo Tam perché quel personaggio sono io e anche io sono il tuo, e Giulietta si scopre Medea, anche se non lo sa. 
Amo Tam perché, alla fine mettere in scena la vita sarebbe per tutti una grande fatica, se non ci fosse bellezza dietro le quinte, un po’ di culo e, forse, un po’ di magia.





Foto di Chiara Roncuzzi


Settima parte
Ottava parte
Nona parte
Decima (ed ultima parte)

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