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lunedì 20 novembre 2017

Teatro Accademia Marescotti (seconda parte)



Prima parte


Sabato 18 novembre
La campanella suona per i ventiquattro allievi del TAM (Teatro Accademia Marescotti) e in questa giornata si è finito di vedere i monologhi di coloro che erano rimasti fuori la settimana scorsa.
Si chiede la presenza di un'altra persona, una comparsa, ma quando due persone sono in scena, anche se una ha un ruolo minore rispetto ad un altro, non esistono ruoli da sottovalutare.
A differenza del cinema, dove vengono usati molto spesso comparse per fare passanti, nel teatro tutti coloro che sono in scena hanno il loro ruolo, la loro storia. In quel preciso momento, chi è in scena, anche una comparsa, è un protagonista.
Inoltre, diversamente da un personaggio principale, chi ha poche scene, in special modo se ne ha una, ha poche chance di arrivare agli spettatori e se le sbaglia non può recuperare. Così si può anche voler portare a dimostrare a tutti i costi la propria bravura, ma questo porta ad esagerare.
Quindi anche una comparsa non deve essere sottovalutata così come chi ha un ruolo minore.
Non ci si deve sentire più o meno importanti dal quantitativo di battute che si ha. Non si recita con gli altri per competere, per dimostrare così il proprio valore. 




Ivano Marescotti e Cristiano Caldironi


La volta precedente si parlava di come gli attori vengano un po' presi in giro per questa ricerca spasmodica delle emozioni, ma se togliamo le emozioni che cosa rimane? 
E' grazie alle emozioni, a ciò che prova il personaggio e ai gesti che le parole vengono fuori. Non si va in scena per declamare. Proprio per questo a volte si dice: "Stai recitando." nel senso "Non ti credo. Non sei vero."
Come non manca mai di ricordarci Ivano Marescotti, è sempre meglio un'emozione piccola ma vera che una grande ma finta.
Per esempio il pianto o la rabbia. Spesso si pensa a spingere, a dover essere espressivi al massimo per far capire che si è tristi o arrabbiati ma così sarebbe come aver un cartello con su scritto (nome personaggio) sta piangendo o (nome personaggio) è arrabbiato.
Le parole non hanno bisogno di essere ulteriormente colorate, caricate di intenzione, per cercare di far capire meglio quanto la pioggerellina può essere leggera o un uragano distruttivo.
Gli attori non recitano per descrivere le parole ma per mostrare ciò che prova il personaggio, ciò che è la sua esigenza di dire.





Dopo aver finito di ascoltare tutti, si passa a vedere degli spezzoni tratti da film con protagonista Marlon Brando ovvero Un tram che si chiama desiderio, Giulio Cesare e Ultimo tango a Parigi.
I primi due spezzoni li avevo già visti ma è sempre utile riguardarli perché ogni volta si possono notare nuovi dettagli e poi se si tratta di studiare, la ripetizione di un concetto non deve essere vista come noiosa o obsoleta. Chi per esempio fa musica, canta, danza, ripete un gesto, un esercizio finché non lo impadronirà del tutto e anche dopo continuerà a ripeterlo.
Si passa alla scena nuova, quella de Ultimo tango a Parigi dove Marlon Brando (qui Paul) parla con la moglie morta. All'inizio nega il dolore che sente, la insulta, per poi immergersi totalmente nella disperazione.
Tutto ciò che viene fatto, anche i più piccoli gesti come il grattarsi la schiena di Stanley Kowalski ne Un tram che si chiama desiderio, è in funzione al personaggio e allo stabilire i rapporti che ci sono tra i personaggi. 
Ogni azione, anche quando non sembra, deve essere funzionale. Se così non è, va eliminata.



Infine si fa la danza-non danza, ovvero ballare la musica senza però seguire un ritmo stabile ma cercando di sentire i vari cambiamenti come il vento agisce sul mare o su dei panni. Essenzialmente qui siamo vuoti, nient'altro che corpi. Non stiamo a goderci ciò che sentiamo con la testa, ma con tutto il corpo. Anche se però ci abbandoniamo completamente e si cerca di non ballare in 4/4, questo non vuol dire fare figure simmetriche o comunque decise a priori perché sono belle. In questo modo si è ancora concentrati su come si viene fuori, ancora presenti con la testa.
Far belle figure e prefigurate, cercare di non apparire brutti e cretini... Giudicarsi è una debolezza comune nelle persone, ma per chi vuol fare l'attore è un ostacolo: si è talmente concentrati in se stessi da non pensare al proprio personaggio.
Molte volte ho sentito all'inizio dei corsi Abbandonate chi siete... Lasciate la vostra testa nei camerini...
Anche per questo si invita a vestirsi di nero o comunque di scuro proprio perché i vestiti che portiamo tutti i giorni parlano di noi, sono le nostre vite che indossiamo.
Quella che all'inizio può sembrare una spersonalizzazione alla fine risulta un arricchimento della propria personalità, un andare alla scoperta di se stessi, di ciò che si può fare, di andare incontro a nuovi lati di sé ma non lo si può fare se non siamo vuoti.
Questo del vuoto, che è tanto un concetto zen, non è poi così tanto lontano per noi occidentali. 



Finita la lezione.
Domenica non sono riuscita ad andarci.
Il prossimo weekend è sabato 9 e domenica 10 dicembre.



Cosa posso dire? Come ho detto durante il 100 ore, sto rivedendo molto di ciò che ho fatto e se lo facessi adesso, lo farei in maniera diversa. Questo però non vuol dire che non rinnego il mio percorso.
Intanto si pensa già alle scene che porteremo. Visto il tema drammatico del monologo che ho fatto per il 100 ore, questa volta voglio fare qualcosa di opposto, qualcosa di comico, da commedia o comunque leggero.
Lo faccio perché non ho intenzione di diventare un'attrice drammatica o un'attrice da commedia, ma un'attrice.




foto fatte da Giada Giacchetti e Chiara Roncuzzi

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Sesta parte
Settima parte
Ottava parte
Nona parte
Decima (ed ultima parte)

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